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La parola è al centro del rapporto medico-paziente. Non la tecnologia

FondazioneBietti_medicopaziente

Mario Stirpe, uno dei luminari dell’oculistica mondiale, si rivolge sia ai dottori che ai cittadini: “Più gli strumenti a nostra disposizione diventano progrediti, più appaiono evidenti i limiti della medicina contemporanea, capace di far vivere a lungo, ma non sempre di curare le malattie che dalla longevità derivano. Vivere sia a lungo che sani è tutt’altro che garantito. Per questo diagnosi precoce e prevenzione sono, oggi, ancora più importanti di com’erano un tempo. E centrale rimane la capacità, da parte degli oculisti, di raggiungere e parlare alle persone. Anche sui social”

Allievo del grande Giambattista Bietti e uno dei fondatori della Fondazione IRCCS che porta il nome di quest’ultimo, il prof. Mario Stirpe è uno dei più autorevoli e rispettati oculisti nella comunità scientifica mondiale.

È curioso, perciò, che il suo avvicinarsi alla disciplina coincida con la difficoltà incontrata dalla madre nel ricevere una diagnosi corretta di distrofia maculare. “La ricordo ribadire e ribadire a più di un oculista che i sintomi provati non erano attribuibili all’astigmatismo, dal quale pure era affetta. Solo Bietti ebbe la pazienza di crederle e di fare una diagnosi corretta. Lo stesso Bietti – ricorda Stirpe – mi confidò, quando divenni suo allievo, che gli unici errori che avesse compiuto erano imputabili alla fretta e al non aver prestato la dovuta attenzione agli elementi che i pazienti gli sottoponevano”.

“Tutt’ora la capacità di ascoltare e di comunicare è un elemento di enorme importanza nella professione del medico. E, come vedremo, dell’oculista in particolare”.

“Da tempo, infatti, la fascinazione per gli indiscutibili risultati della tecnologia – migliori materiali, migliori indagini diagnostiche, migliori capacità di intervento – occupa uno spazio centrale nel racconto e nella percezione della medicina”.

“Questo – spiega il Professore, che pure di quel progresso tecnico è stato uno dei pionieri – può trarre in inganno”.

“In primo luogo, infatti, bisogna ricordare che gli strumenti si sono sviluppati più velocemente della capacità di curare. La medicina contemporanea, infatti, ha permesso di allungare molto la vita ma non garantisce di vivere anche sani, in questa longevità. Anzi, è proprio l’invecchiamento ad aumentare l’incidenza di alcune malattie che possono rivelarsi estremamente pericolose, ove non diagnosticate per tempo”.

“Questo scenario ci porta a contemplare una prospettiva sgradevole: vivere a lungo, sì, ma da malati, perché la medicina è in grado di ritardare gli effetti di molte malattie e contenerle, ma non sempre di curarle o invertirne il corso”.

“Ciò, – continua il professore – è particolarmente rilevante in oftalmologia, perché diverse patologie che possono indurre cecità, come il glaucoma, sono asintomatiche negli stadi inziali, ma sono difficili da trattare con efficacia una volta che si siano manifestate apertamente. Non è un caso che il rischio di cecità sia cresciuto piuttosto che diminuire nel corso degli anni”.

 “I successi del progresso, perciò, mettono in luce i suoi stessi limiti. Una volta le malattie degenerative che, oggi, minacciano di provocare la cecità erano rare perché pochi avevano il tempo di svilupparle. Ora invece, e proprio grazie al progresso, sono divenute malattie sociali. È ben lungi dall’essere un fallimento per la medicina, ma in questa dinamica si legge anche un monito a non essere troppo orgogliosi degli strumenti che abbiamo sviluppato, né troppo fiduciosi nella tecnologia. Oggi più ancora di un tempo l’incidenza delle malattie degenerative legate all’invecchiamento porta a rivolgere l’attenzione a quei fattori di rischio sui quali possiamo intervenire in anticipo: in primo luogo attraverso la prevenzione negli stili di vita, che deve iniziare a trent’anni e non a sessanta quando i danni sono già stati provocati; in secondo luogo attraverso le visite che permetto di effettuare quelle diagnosi precoci che si rivelano essenziali per contrastare il decorso di patologie come ”.

“Entrambe queste strategie – però – fanno perno su un unico elemento: la comunicazione tra medico e paziente che deve essere profonda, frequente e bilaterale. Il medico è, prima di tutto, una persona che parla ad un’altra persona e l’importanza di questo scambio va oltre il tempo, tutto sommato circoscritto, della visita o della relazione terapeutica. I medici, come dimostra l’esempio di Bietti, non devono mai dimenticare di ascoltare. Ma non devono, neppure, dimenticare di parlare. Ci vuole tatto e pazienza per guidare gli assistiti a compiere azioni non particolarmente allettanti come farsi visitare periodicamente, smettere di fumare e mantenere uno stile di vita sano”.

 “Per molte ragioni, il bisogno di un’informazione veritiera in sanità cresce e penso che gli oculisti debbano farsi carico di questa necessità come parte integrante del loro “prendersi cura” delle persone. Del resto, i cittadini hanno bisogno di essere correttamente informate sui rischi, sulla prevenzione, sui passi da compiere per proteggere le vista e non ci sono molte alternative, reti od organizzazioni istituzionali che si facciano carico di questo compito. Anche nell’ambito della ricerca, gli ammalati hanno diritto di essere informati sugli ultimi progressi, sugli studi clinici ai quali partecipare, sulle scelte a loro disposizione. I social network, per esempio, per la loro immediatezza e diffusione possono fare molto per accorciare la distanza tra medici e assistiti, mantenendo una corrente di informazione e coinvolgimento.

“In definitiva – conclude il Professor Mario Stirpe – la tecnologia offre e offrirà strumenti eccezionali nessuno dei quali, però, potrà mettere in secondo piano – sia per importanza che per efficacia – il rapporto umano tra chi cura e chi è curato”.

3 Marzo 2022
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